Grazie allo Scienziato Italo Americano, Professore Antonio Giordano della Sbarro Health Research Organization e con l’impegno progettuale e scientifico dell’ Icar Cnr, si attraversano nuovi percorsi di sperimentazione e Gallarate diventa Centro di Ricerca con il dottore Marco Predazzi, da anni impegnato con i malati affetti da Impairment cognitivo.
Il progetto ha un obiettivo finale ambizioso e rivoluzionario: testare e sviluppare nuovi sistemi per la cura del morbo di Alzheimer basato sull’applicazione della Realtà Virtuale. Se ne parlerà sabato 29 settembre a Gallarate, al convegno internazionale, dal titolo “Realtà Virtuale in Soggetti con Impairment Cognitivo”.
LA METODOLOGIA “PROTESICA” COME BACKGROUND
Come la protesi ortopedica va a colmare il deficit anatomico del paziente sull’arto leso, così l’intervento dell’operatore relazionale a contatto con la persona demente è chiamato a fornire al paziente ciò che gli manca per essere il più possibile autonomo nel realizzare gli obiettivi possibili della propria vita quotidiana, come un buon intervento protesico richiede senza andare oltre i limiti del danno reale, senza sostituirsi al paziente, ma supportandolo quanto basta perché ritrovi la sua autonomia. Ma qual è l’oggetto di questa “protesi”?
La progressione della demenza pone la persona in una condizione del tutto particolare e apparentemente contraddittoria, sospesa tra un presente esistenziale quanto mai vivido e reale ed uno spazio-tempo della mente totalmente alieno.
La dimensione del presente è enfatizzata da un passato dai ricordi sempre più lontani e confusi e da un futuro improbabile privo di ogni proiezione progettuale, ma il delirio trasporta continuamente la mente in un altro spazio ed un altro tempo.
Il malato di demenza è contemporaneamente presente e assente, qui e altrove, in una condizione per cui la vita quotidiana richiede imperiosamente di essere affrontata ed agita e contemporaneamente si presenta come una realtà sfuggevole e non più dominabile dai contorni imprecisi, punteggiata da percorsi divenuti impervi per il progressivo appannamento di sequenze logiche e prassie perdute.
L’esito di questa dialettica quotidiana è un perenne conflitto tra desiderio di attività e frustranti rinunce, tentativi velleitari e sconfitte cocenti, volontà di autonomia ed abulica dipendenza, così che la prima e più dolorosa “perdita” del malato, prima ancora dell’archivio della memoria e della progettualità del futuro, è proprio l’impossibilità di vivere appieno l’unica dimensione vitale realmente rimasta: il presente. L’amputazione in cerca di protesi della persona demente è la vita quotidiana, la privazione dell’autonomia nella gestione dei tempi e delle gestualità di ogni giorno che avevano caratterizzato le giornate di una vita intera, la rinuncia alle abitudini e alle iniziative che ne avevano personalizzato il profilo, il crollo delle relazioni micro e macrosociali che ne avevano supportato il percorso e l’autostima.
Una protesi di questa natura, se da un lato poggia inderogabilmente sull’apporto relazionale del care giver, sulla sua capacità di “leggere” il bisogno dell’altro e di supportarne le motivazioni anche quando sono inespresse senza invalidarne l’autonomia, dall’altro chiama in causa inevitabilmente fattori ambientali e dimensioni sociali più ampie e complesse.
In questo la cultura protesica rivela un potenziale che va molto oltre una buona pratica assistenziale, allargandosi ad abbracciare territori che mettono in gioco elementi logistici, gestionali e sociali complessi: l’arredo deve essere protesico, la casa deve essere protesica, il villaggio che raccoglie case, negozi e servizi deve essere protesico, la comunità sociale in cui il progetto si inserisce deve essere protesica, i tempi e le attività domestiche devono rispondere ad una logica protesica, i set assistenziali degli operatori devono essere organizzati in chiave protesica, gli operatordegli esercizi commerciali e dei laboratori devono essere formati ad
una logica protesica.
La sperimentazione della VR come opportunità per accompagnare protesicamente il percorso di malattia, sia in chiave di “training” nelle fasi iniziali che come “relaxing” nei contesti più avanzati e terminali, così come la progettazione del villaggio Alzheimer altro non è che l’aspirazione ad una protesicità integrale estesa all’intero arco della giornata, un’utopia che si fa progetto e struttura di vita reale, aprendo un orizzonte quanto più ampio di riflessioni teoriche e di possibili interpretazioni, applicazioni e realizzazioni che per la prima volta non rispondono a logiche di adattamento di strutture preesistenti nate su altri presupposti, ma ad un nuovo, originale, inedito percorso teorico e creativo coerente con le esigenze specifiche dei destinatari.
Il programma completo a questo link